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Il Popolo Resiano, lotta contro l'imposizione all'appartenenza alla Minoranza Nazionale Slovena

martedì 26 aprile 2011

STORIA DI UNA FAMIGLIA DI ARROTINI

 Il Bollettino Parrocchiale – Luglio-Agosto 1968 riportava la notizia della tragica morte di Antonio Lettig di 25 anni di Stolvizza. Il triste fatto era accaduto di notte mentre correva verso Bolzano. I quotidiani riportavano questa notizia”….la velocità e un colpo di sonno o qualche altra causa, hanno ucciso Antonio Lettig. Il giovane arrotino di Resia è rimasto vittima del tragico incidente mentre andava a Bolzano per il suo lavoro di ambulante arrotino.”
Molti arrotini sono tragicamente deceduti sulla strada per il loro lavoro. Di alcuni, la cronaca nei tempi passati non ne veniva a conoscenza e la notizia giungeva talvolta molto tardiva in particolare quando succedeva in terre lontane nel loro lungo peregrinare attraverso l’Europa in particolare per i paesi dell’Est.
La storia degli arrotini è infinita e ognuno di loro ne ha una fatta di sacrifici, non sempre uguale ad altri, come questa che vado a raccontare.
Madotto Odorico Cjakarin, nato nel 1851 a Coritis diede alla luce 18 figli. Praticava il lavoro di ambulante – Kramar – vendendo oggetti sistemati nella krama (cassettiera portata sulle spalle) dove trovavano collocazione fili, aghi, ditali, spilli, pezzi di stoffa, in pratica tutto ciò che serviva alle donne di casa. Uno dei suoi tanti figli, Odorico, nasce nel 1899 e da giovane apprese il mestiere di arrotino praticandolo poi per tutta la sua vita. All’età di 10 anni, sua madre mise in un tovagliolo un po’ di polenta e formaggio e lo accompagnò a piedi da Coritis fino a Resiutta, gli comperò il biglietto di solo andata fino a Klagenfurt dove lo attendeva uno dei componenti della ditta Di Lenardo di Oseacco che avevano negozi di frutta e verdura a Vienna e a Graz. La famiglia dei Di Lenardo era molto generosa nei confronti dei resiani e non rifiutavano richieste di lavoro se si trattava dei loro paesani. Si prendevano cura dei ragazzini e li mandavano anche a scuola. L’informatore Onorato Madotto mi ha raccontato che i titolari andavano in Sicilia ad acquistare la frutta ancora in fiore e il raccolto poi lo trasportavano in nave fino a Trieste e da qui in treno fino in Austria. Il ragazzino Odorico per alcuni anni si occupò della vendita di arance, limoni, mandarini, mele e verdure poste su un carretto e vendute porta a porta. Divenuto grande, incominciò a fare l’arrotino con i fratelli Leonardo, Luigi e Stefano in giro per la Croazia. Un altro zio, Giovanni, si era sistemato a Sopron dove lì c’era già l’arrotino Trancon Giuseppe divenuto l’uomo di fiducia dell’Arciduca Francesco Ferdinando.
Dopo avere imparato il mestiere, con gli zii Fortunato e Stefano, girò tutta la Jugoslavia. Era giunto il momento di accasarsi e sposava Angelina Siega Hàkumawa di Oseacco. Per fare questo, chiese allo zio Giovanni un prestito per acquistare una stanza – una l’aveva già – e un pezzo di terreno. Doveva pur avere qualcosa di suo per accogliere la giovane sposa e lasciarle un riparo dopo la sua partenza girovaga per lavoro. Prima di partire, raccomandò al padre che, per qualsiasi motivo non avesse più fatto ritorno, di restituire i soldi allo zio perché gli sarebbe dispiaciuto morire con il debito. Partito verso Pontebba con la krösma, girovagò per l’Austria, Ungheria, Croazia, Serbia, Montenegro, Albania per arrivare fino in Grecia. Dopo essersi imbarcato per Brindisi, percorse tutto il ritorno e, di paese in paese, dopo tre anni, nel 1915, arrivava di nuovo nella sua casa di Coritis. Arrivato, restituì il debito che aveva contratto con lo zio. Subito dopo, fu chiamato a difendere la Patria sul Carso Kräs dove rimase ferito gravemente. Fu trasferito ad Ancona e, una volta guarito, prese servizio presso un colonnello. Nel 1920 decise di andare a lavorare in Jugoslavia; aveva escluso l’Austria diventata povera come l’Italia. Giunse a Smedrevo in Serbia, una cittadina industriale e ricca. Dopo avere trovato casa, chiamava tutta la famiglia che era composta dal figlio Umberto nato nel 1915 e Anna nel 1919. Erano venuti alla luce, dopo Umberto, anche Adamo morto in Klivaz e sepolto a Prato e due gemelli deceduti durante il parto e sepolti fuori del cimitero perché non battezzati. In questa cittadina, il Madotto sistemava la sua Krösma sulla piazza principale del paese e lavorando onestamente, si accattivava le simpatie di tutta la popolazione. Nel 1923 nasceva Angelina, nel 1926 vedeva la luce Onorato che moriva in tenera età infine, nel 1929, Onorato al quale fu dato lo stesso nome del piccolo deceduto. Umberto e Angelina frequentavano le scuole del luogo dove avevano imparato il serbo cirillico serbianske e il croato latinize. In casa, parlavano in resiano e Onorato, l’ultimo, lo capiva ma non lo parlava ma questo non era un problema poiché i genitori e i fratelli sapevano sia l’una che l’altra lingua. Tutto procedeva bene, si comperavano la casa con orto e il lavoro non mancava fino a quando il responsabile politico della cittadina lo faceva chiamare per dirgli che essendo lui da molti anni nella loro città, che aveva un lavoro soddisfacente, che possedeva una casa sua, che i figli avevano studiato e imparato la loro lingua e quindi gli suggeriva di farsi cittadino jugoslavo. Odorico gli diede ragione e confermò tutto questo ma rispose che non si sentiva di tradire la sua terra dopo che aveva versato anche il sangue per difenderla. Passato un mese, ecco di nuovo la chiamata ma con l’intimidazione di prendere la loro cittadinanza. Intanto suo fratello Fortunato era andato a lavorare in Libia a Bengasi e gli comunicava che stava bene. Allora Odorico si reca dal consolato italiano e chiede il passaporto per la Libia minacciando che se non lo otteneva si sarebbe fatto cittadino Jugoslavo. Era certo che, se fosse ritornato in Italia, non avrebbe ottenuto il permesso per la Libia. Ottenuto ciò che voleva, nel 1933 la moglie e i figli rientravano a Coritis mentre lui rimaneva per vendere la casa e trasferire il mobilio. Il figlio Umberto era rimpatriato prima ed era andato a lavorare a Tarvisio presso il negoziante di frutta e verdura di Antonio Siega. Al suo rientro, Odorico faceva costruire la casa più grande del paese – quella, per chi si ricorda, dove alloggiavano i finanzieri dopo il 1945, poi scuola elementare e oggi colonia estiva. Prima che terminasse, partì per la Libia e lascio alla moglie il compito di seguire i lavori. Lei stessa si alzava al mattino presto per recarsi a Stolvizza, caricare un sacco di cemento e tornare attorno alle ore otto per seguire i lavori. Così fece anche per le travi di ferro che dovevano sostenere il soffitto. Al termine di tutto ciò e non prima di avere seguito la costruzione di un pozzo sulla planina di Beza, partì assieme ai figli, per Tripoli. Il piccolo Onorato quando giunse a Coritis non sapeva parlare il resiano, capiva tutto quanto dicevano i suoi coetanei, ma lui rispondeva in croato e loro lo prendevano in giro. La mamma gli spiegò il motivo e così non ci volle molto tempo per imparare il resiano. L’anno precedente la partenza per la Libia, frequentò la prima elementare, imparando a fare le aste solo che la maestra parlava e spiegava in resiano e quando giunse a Tripoli fu costretto a ripetere la prima perché non sapeva parlare in italiano. Quando la maestra della seconda gli mostrava la figura del cane o del gatto rispondeva in resiano. Questa pensava che fosse andiccapato e capì la situazione solo dopo avere parlato col padre e gli suggerì di iscriverlo alla prima elementare. Continuò le scuole fino alla quarta. Era il 1939 e la guerra era alle porte. La famiglia viveva bene e Odorico gestiva con la figlia la bottega, arrotava bisturi per ospedali, coltelli per alberghi e vendeva articoli agricoli ai contadini. Anche il figlio Umberto aveva messo negozio in altra parte della città.

( Tripoli: vetrina negozio coltelleria e arrotino di Madotto Umberto Cjakarin )

 La famiglia Madotto nel 1937 fu colpita dal lutto per la scomparsa prematura della figlia diciottenne Anna che fu sepolta a Tripoli e poi, dopo il loro rientro a Resia, traslata a Oseacco. Per l’avvicinarsi della guerra, il piccolo Onorato era imbarcato per Napoli assieme a circa 400 bambini e poi trasferito a Riccione in colonia. Come dice egli stesso - lì si stava bene, eravamo tutti vestiti da piccoli balilla inquadrati come soldati con tanta disciplina. Dopo Rimini, di nuovo a Bagnoli e quando sono incominciati i bombardamenti sono stati trasferiti a Bordighera. Il 24 dicembre del 1941, rientravano tutti a Resia non prima di essere passati a prendere il piccolo Onorato. Non avevano nulla, faceva freddo non c’era la legna per accendere il fuoco e per quella sera una parente portava a loro solo delle patate. Nei giorni successivi, da altre persone sono riforniti anche di fagioli e cipolle per fare il minestrone. Onorato intanto frequentava la scuola e ogni giorno nei pomeriggi, andava sullo stavolo di Provalo a prendere fascine di legna o a cercare il letame per concimare un piccolo campicello. Al padre piaceva leggere i giornali e un giorno vide un annuncio di vendita di una casa a Cividale. Prese il treno e con l’agente di vendita sono andati a visionare in periferia della cittadina alcune case che a lui non piacevano. Ritornati a Udine l’agente gli chiese se aveva i soldi e lui gli rispose che non doveva preoccuparsi perché, se combinavano l’affare, glieli dava uno sull’altro. A questo punto ritornarono a Cividale e dopo avere visto la casa proprio nel centro, la acquistava. Al piano terra ricavò il negozio e sistemò la Krösma per arrotare, al primo piano la cucina e nel sottotetto le camere. Era naturale che anche il figlio Onorato seguisse le orme del padre. Fatto l’obbligo militare oltre al lavoro in bottega, andava anche a fare i mercati. Un giorno chiese al padre la consegna del negozio per due anni. Se tutto andava bene avrebbe continuato altrimenti sarebbe andato in giro come tanti altri arrotini. La sua capacità nel gestire il negozio lo premiò e lo premiò ancora di più quando s’innamorò di una giovane ragazza che lavorava di fronte ammirandola con sguardi reciprocamente condivisi. Sposò Sonia nel 1957 e dalla loro unione sono nati Odorico e Daniela che oggi gestiscono la profumeria nello stesso luogo dove il loro nonno aveva deciso di sistemarsi definitivamente dopo che aveva girato l’Europa e conosciuto anche la terra d’Africa.

 
 
 
 
 
 
 
Mio padre Odorino Madotto Cjakarin, era nato a Coritis e anche mio nonno era di Coritis, avevano la planina in beza. Mia madre era di Oseacco e la sua famiglia aveva lo stavolo in Klivaz. Quando è finita la guerra mio padre andava in Austria e in Ungheria, andava a lavorare sotto la ditta Di lenardo. Mio nonno andava a fare il kramar, a vendere oggetti con la Krama sulle spalle e nei cassetti aveva fili, agli, pezzi di stoffa, spilli e tutto quello che serviva alle sarte di famiglia. Mio padre invece da grandicello andava a imparare a fare l’arrotino. Mia nonna, quando aveva 10 anni, gli ha messo in un tovagliolo un pezzo di polenta e formaggio ed è partito da Coritis a piedi fino a Resiutta dove lo ha messo sul treno che andava a Klagenfurt a lavorare sotto la ditta Di Lenardo (domanda: è partito da solo o era accompagnato) Si, è partito da solo perché non avevano abbastanza soldi per accompagnarlo, è partito alla garibaldina, si direbbe oggi. A Pontebba c’era il confine. La ditta Di Lenardo aveva anche negozi a Vienna, a Graz, erano molto ricchi ma avcevano anche una particolare predisposizione per aiutare i resiani. Infatti, c’erano molti resiani che lavoravano per loro, in particolare bambini ai quali insegnavano la lingua, li mandavano anche a scuola, come diceva mio padre, avevano alle loro dipendenze molti resiani. I Di Lenardo aiutavano molto nel vero senso della parola. Mio padre dall’autunno, tutto l’inerno e fino agli inizi della primavera, vendeva arance, limoni, mandarini, mele, e verdura. I Di lenardo comperavano in Italia e rivendevano in Austria. Andavano in Sicilia a comperare piantagioni intere di frutta fin dalla primavera, quando ancora erano in fiore e poi con le navi li portavano fino a Trieste e da qui in treno fino in Austria. Dopo mio padre con i fratelli Leonardo, Luigi e Stefano, andavano in Croazia. sempre sotto l’Austria e lì hanno imparato ad arrotare e mio padre si è messo in loro compagnia. Io a Oseacco hoi ancora la sua crosma molto malandata. Mio padre aveva una sorellastra che si era sposata con mio zio Giovanni che aveva un negozio a Sopron in Ungheria dove c’era anche l’arrotino Trancon. Mio padre teneva una cartolina del Trancon che gliela aveva mandata a Smedrevo credo negli anni 1926-1928. Mio padre dopo avere imparato il mestiere, andava con mio zio Fortunato e mio zio Stefano per tutta la Jugoslavia. Mio padre in seguito si sposò e per fare questo aveva contratto un debito con mio zio Giovanni di 3000 lire senza interessi ma con l’impegno di restituirli. Non aveva una lira e con quei soldi comperò una stanza destinata a fienile e lì c’era anche una stanza di suo padre (mio Nonno). Più in là mia zia Holandina aveva un pezzo di terreno. Poi è partito senza dire alla moglie del debito - sposandosi doveva pur dare un alloggio alla moglie, perché lei, a Oseacco, non aveva nulla. Prima di partire mio padre ha preso in parte mio nonno e gli ha detto: senti papà io ho fatto un debito con lo zio, se io dovessi mancare, fatemi il piacere di pagare il debito, mi dispiacerebbe morire con il debito. E’ un grande impegno quello che ho preso. E’ partito verso Pontebba, poi in Austria, in Unhgeria, in croazia, in serbia, in Montenegro in Albania, ed è arrivato fono in Grecia, sempre con la crosma. Per il viaggio di ritorno si è imbarcato fino a Bari e poi su su fino ad arrivare di nuovo a Coritis. La prima cosa che ha fatto appena giunto, è andato dallo zio a restituire il debito. In seguito è scoppiata la guerra ed è partito a fare il militare sul Carso (Kräs) dove è rimasto ferito gravemente e trasportato ad Ancona. Dopo la guarigione è andato a servizio presso un colonnello il quale non lo faceva lavorare perché gli era riconoscente per avere rischiato la vita per la Patria. Finita la guerra è tornato a casa. Nel 1920 circa, ha deciso di andare a lavorare in Jugoslavia. Aveva escluso l’Austria perché era diventata povera peggio dell’Italia. E’ arrivato a Smedrevo in Serbia, una cittadina industriale, ricca e qui avevamo ogni ben di Dio, soldi ne avevamo e stavamo bane. Mia sorella è nata nel 1923, poi un bambino nel 1926 morto due anni dopo. Io non ho conosciuto questo fratello perché sono nato nel 1929 ma mi è rimasto nel cuore e l’ho tenuto come mio Angelo Custode. Mio fratello Umberto è nato nel 1915 a Coritis, mio sorella Anna poi nel 1923 Angelina in Serbia. Mio fratelli che aveva 15 anni più di me, mia sorella Anna e Angelina sono andati tutti a scuola in Serbia. In questa città a quel tempo si frequentavano già quella volta otto classi, in Italia erano cinque e là otto. In casa si parlava resiano e io capivo il resiano ma non lo parlavo, i miei genitori non avevano problemi perché contemporaneamente parlavano le due lingue. Attorno agli anni 1930-31 mio padre non si interessava di politica perché essendo noi ospiti, non dovevamo interessarci. Chi comandava in quella città un giorno hanno mandato a chiamare mio padre per dirgli che i suoi figli hanno fatto le scuole serbe, che ormai viveva qui e che qui aveva tutto, casa, lavoro, famiglia e quindi doveva farsi cittadino jugoslavo. Mio padre rispose che avevano ragione, che gli davano da mangiare e da lavorare, ma che lui non si sentiva di fare questo perché aveva versato il suo sangue per gli italiani e non poteva tradire la terra che gli aveva dato i natali e si sono lasciati lì. Passato un mese ecco di nuovo la chiamata questa volta intimandogli di diventare cittadino jugoslavo altrimenti doveva partire. Mio padre si spaventò per il lavoro ma anche per la casa che aveva comperato. Suo fratello Fortunate, invece, era andato a Bengasi e gli scriveva che stava bene. In Italia non c’era lavoro e là invece era possibile lavorare e guadagnare. Mio padre allora è andato al Consolato e ha chiesto il passaporto per Tripoli. Se fosse rientrato in Italia, sarebbe stato estremamente difficile ottenere il passaporto per la Libia e ha proposto ai funzionari che se non lo otteneva, si sarebbe fatto cittadino jugoslavo. Ottenuto ciò che voleva, ci faceva rientrare a Resia dove, nel 1933, faceva costruire la casa più grande di Coritis (per chi si ricorda era quella dove alloggiavano i finanzieri dipo il 1945, poi scuola elementare e, dopo il sisma, la colonia estiva). Mio fratello Umberto era venuto via prima andando a lavorare a Tarvisio presso Siega Antonio per imparare anche l’italiano e il tedesco. Io rientravo con la mamma, la sorella Anna e Angelina. Dopo alcuni mesi anche mio padre rientrava non prima di avere venduto la casa e mandato i mobili e tutto ciò che poteva col treno compresa la crösma. Quando siamo giunti a Resia mia sorella sapeva già come si viveva mentre Angelina piangeva sempre perché non stava volentieri. In Jugoslavia aveva tutto mentre ritornare a Resia sapeva del duro lavoro che doveva fare – portare il gerlo, il letame, il fieno, vangare, mangiare polenta e solo ogni tanto qualche minestra – e tutto questo non le piaceva. Mia madre in Jugoslavia, al sabato, faceva la torta, i biscotti e quando avanzava del cibo, lo davamo alle oche e alle galline che avevamo nell’orto. Io, quando sono arrivato a Coritis, non sapevo parlare in resiano e quando giocavo con gli altri bambini, capivo tutto ciò che dicevano ma io rispondevo in serbo. Loro si mettevano a ridere e non capivano perché rispondevo così. Io pensavo dentro di me quanto erano stupidi questi bambini. A casa ho chiesto a mia madre questo particolare del perché io li capivo e loro invece no.Mi spiegò e mi incoraggiò a parlare in resiano. In poco tempo ha imparato a parlare e quando mio padre dopo alcuni mesi rientrò dalla Serbia e mi parlava in quella lingua, io non lo capivo più perché l’avevo già dimenticata. Mio padre intanto aveva incominciato a fare la casa e mi ricordo che mia madre in località “Barlosniza” si era inginocchiata davanti a lui pregandolo di comperare una casa in Friuli che qui non c’era nulla. Mio padre allora si era interessato e aveva trovato una casa colonica con circa 20 campi al costo di L. 30.000. (……………….) ma aveva già incominciato la casa a Coritis. Prima di partire per la Libia, fece a mia madre una procura per tutto ciò che possedeva dandole piena facoltà di fare ciò che voleva. Mia madre per finire la casa partiva presto all’alba ogni matttina e si recava a Stolvizza, prendeva un sacco di cemento e, attorno alle otto di mattina era di ritorno e lo consegnava agli operai. Fece lo stesso con le travi di ferro che servivano per il solaio A forza di fatiche, riusciva a far terminare la casa. Mio padre saputo che la casa era quasi finita scrisse a mia madre di impegnare gli operai a finire in fino il pozzo che avevano sullo stavolo di Beza. Mia madre per dare di fino all’interno del pozzo, andava al fiume e raccogliere la sabbia e con il gerlo portarla fin sullo stavolo abbastanza distante e in salita. Finita la casa, mio padre ci fece partire tutti per la Libia. Prima di partire per Tripoli sono andato a scuola in prima elementare a Oseacco. La maestra era la mamma di Sabina Tozlinawa, la famiglia aveva una bottega e per me erano dei signori in quel tempo. Ho superato la la prima elementare con la maestra che parlava e spiegava sempre in resiano, avevo imparato a fare le aste. Il parroco era don Valentino Birtig che mia madre lo pregava per farmi fare la Comunione perché dove dovevamo andare , non sapeva quale religione praticavano. Arrivati a Tripoli, mi hanno iscritto alla II elementare. Il primo giorno la maestra face appello e quando chiamava Madotto, io rispondevo di si. La maestra voleva che io rispondessi presente e che mi alzassi invece io continuavo a di re solo si. Passati un paio di giorni. Io continuavo sempre a rispondere di si tanto che credevano che io fossi andiccapato. La maestra allora chiamò mio padre spiegandogli che quando mi veniva chiesto qualcosa, io rispondevo si. Mio padre si scusò e spiegò che non sapevo parlare l’italiano. Gli chiese come mai e da dove venivamo e dopo che le aveva spiegato tutto, la maestra dispiaciuta gli rispose che dovevo rifare la prima classe e imparare la lingua italiana. Vicino alla casa dove abitavamo, abitava una ragazza di circa 17-18 anni che studiava per diventare maestra. Le ha chiesto se poteva darmi delle lezioni la quale accosentì e fece comperare un quaderno con le figure. Il primo giorno ha aperto il libro dove c’era la figura di un cane, mi indicò di dire che cos’era e io le risposi pes. No, mi diceva, questo è cane, poi mi mostra un gatto e io le rispondevo tuza. No, diceva, no tuza, questo è gatto e giorno dopo giorno dopo due mesi, ho imparato anche a parlare in italiano. Lì ho fatto tutte le classi, l’ultima, la quarta nel 1939 e prima dello scoppio della guerra, siamo tornati a Resia. Io fui mandato con tanti altri bambini italiani figli di agricoltori con l’ultima nave in partenza a Napoli. Intanto la guerra era scoppiata, su quella nave eravamo dai 300 ai 400 bambini. Da Napoli ci hanno portati a Riccione in colonia e si stava bene, eravamo vestiti tutti da piccoli balilla. Eravamo contenti anche se c’era la disciplina, ci inquadravano come soldati e c’era tanta disciplina. Nel 1937 mia sorella Aniza è morta, ed era stata sepellita là, aveva solo 18 anni, mio padre le ha fatto fare la bara di zinco per poterla portare un giorno a Resia e dopo la guerra mio padre l’ha fatta rimpatriare e sepellire in cimitero a Oseacco. Alcuni anni fa, è stata riesumata e io l’ho fatta mettere in una piccola bara ala presenza di di mia cognata Albina, la sorella Angelina e noi tutti. Dopo Rimini di nuovo a Bagnoli, Pozzuoli e quando sono incominciati i Bombardamenti, ci hanno trasferito a Bordighera. Lì sono stato 18 mesi sotto i militari, non avevamo molto da mangiare, mio padre era rimasto a Tripoli. Mio padre aveva una bottega di coltelleria e arrotatura e mio fratello anche aveva bottega, poi è arrivato anche Luigi mio cugino. Lavoravano per gli ospedali, per alberghi e per i contadini, vendevano forbici per i vitigni, falci  e tante altre cose e noi stavamo proprio bene. In collegio la nostra corrispondenza e quella dei nostri genitori veniva controllata, dovevamo consegnare aperte le lettere e quello che ai responsabili non andava, lo cancellavano. Mio padre mi mandava anche soldi, mi ricordo che mi spediva 10 lire alla volta per comperarmi il necessario – quella volta erano tane 10 lire. Quando in Libia hanno incominciato a bombardare e mio padre ha visto che le cose andavano male, ha pensato di rientrare a Resia e magari tornare quando tutto fosse passato. Intanto mio fratellochiudeva anche lui la sua bottega. Siamo rientrati a Resia il 24 dicembre del 1941 la vigilia di Natale. I miei genitori sono passati prima per Bordighera per prelevarmi. C’era una direttrice o direttore e quando hanno chiesto i documenti a mia madre, essa si arrabiò e disse: - questo è mio figlio e me lo porto via, mandatemi anche i carabinieri se volete, voi sapete dove andiamo, da dove veniamo e se volete mi troverete. Si era messa a gridare ad alta voce, io avevo un libretto di risparmio con 20 lire che non volevano restituire. Mia madre si è piazzata davanti alla direttrice e ha detto:- si tenga pure le 20 lire che noi non abbiamo bisogno della carità, quei soldi li diamo a lei in carità ma io porto via mio figlio. Siamo andati a dormire in albergo e all’indomani siamo saliti sul treno e la vigilia di Natale siamo arrivati a Resia. Arrivare così non avevamo proprio niente, né legna, né patate e quella volta il regime cominciava a stringere, ci avevano dato i bollini per gli alimenti. Quel giorno è venuta da noi la zia Ernestina moglie di mio zio Fortunato a portarci delle patate per mangiare qualcosa. Poi altri ci hanno dato fagioli insomma a natale abbiamo mangiato minestrone di fagioli.. Era un pranzo di lusso. In seguito mio padre ha tagliato dei faggi e così ci siamo anche riscaldati. Mio zio Fortunato, zio Luigi e Simone Palà Cjakarinow sono andati a fare la legna in Provalo. Dopo le feste sono andato a scuola ma al pomeriggio dovevo andare a prendere una fascina di legna e portarla giù. Quella volta non c’era la luce elettrica, si illuminava coi lumini e la casa di mio padre è stata la prima ad averla a Oseacco e così la mattina a scuola e al pomeriggio a prendere la legna. Io conoscevo il gerlo perché mia madre da piccolo me ne aveva regalato uno per capire che cosa si faceva. Dovevo anche andare a cercare il letame per le case per concimare il campicello, noi non avevamo mucche in stalla. In primavera mio padre aveva preso in affitto un appezzamento di terreno a Cave del Predil sul Prisnick.Venivano gli alpini a falciare l’erba e io, mio padre, mia madre, mio zio andavamo a raccogliere il fieno. Mio padre era un grande lettore, leggeva sempre, che il giormale costasse tanto o poco, leggeva sempre. In febbraio vedeva un annuncio di vendita di una casa a Cividale. Era andatop a Udine in agenzia e con il responsabile sono andati a Cividale. Gli hanno mostrato delle case in periferia ma a lui non interessavano perché era fuori del centro. Hanno ripreso il treno per ritornare a Udine e quando sono arrivati alla stazione l’agente gli chiese se aveva i soldi. Mio padre gli rispose: - Lei non stia a pensare se li ho o non li ho, in Libia ero commerciante e ora vorrei di nuovo incominciare fin tanto che finisce la guerra e poi eventualmente torno giù. Ripreso di nuovo il treno per Cividale l’agente gli mostrava proprio il luogo dove oggi abbiamo il negozio. Era di mio padre e ancora oggi io dico ai miei figli che non è mio , non è loro ma è del loro nonno. Visto e piaciuto, combinava l’acquisto per 200.000 mila lire uno sopra l’altro. Quella volta erano soldoni, erano corrispondenti a molti milioni di oggi. Piccola bottega sotto e piccolo appartamento al primo piano, due stanze al secondo piano e due nel sottotetto. Eravamo in quattro, mio padre, mia madre, mia sorella Angelina che lavorava nella bottega e io. Io invece come lavoro, andavo in giro a fare riparazioni di qualche accessorio di cucina e arrotare, riparavo anche ombrelli. Intanto nella bottega incominciavano a comprerare coltelli e altro, insomma incominciavamo a muoverci. Poi io ho fatto anche l’ambulante, andavo sui mercati a vendere, chiedevano le forche e io andavo in bicicletta a camperarle a Buia. Il titolare non voleva soldi ma burro, a volte formaggio, il commercio era calmierato, non si poteva né vendere né comperare più di tanto e quindi portavo formaggio e ritiravo forche che i contadini chiedevano. In casa noi non avevamo formaggio, burro, farina o uova, il contadino che veniva a comperare una falce noi barattavamo con i loro prodotti. Ci interessavano più i prodotti alimentari che i soldi. Mia sorella in seguito si è sposata ed è andata a Portogruaro, così siamo rimasti in tre. Mio padre non voleva più tornare via perché le cose si mettevano bene. Intanto era tornato anche mio fratello dalla Libia. A 23 anni dopo che avevo fatto il militare, ho chiesto a mio padre che mi desse la consegna del negozio e se le cose andavano bene per uno o due anni, tutto sarebbe stato un bene altrimenti avrei chiuso bottega e andato a lavorare per il mondo. Piano piano, ho incominciato a rifornirmi di casalinghi, ogni cosa che trovavo nuova, la comperavo e la rivendevo accontentando i clienti. Mi sono sposato nel 1957 e mia moglie l’ho conosciuta qui a Cividale. Io non ero pronto ancora, lei lavorava vicino alla mia casa e da una finestra ci guardavamo e ci scambiavamo solo i saluti. Un giorno ci siamo incontrati sul portone, lei doveva uscire e io entrare, l’ho guardata, era giovincella e mi è subito piaciuta. Dopo quella volta piano piano ci siamo frequentati e dopo quattro anni ci siamo sposati felicemente. In seguito è nato Odorino e poi Daniela
Angelina, mia madre ha avuto 8 figli: il primo Umberto nel 1915 poi Adamo morto in Klivaz (tu-wne na kliuze) poi due gemelli nati a Coritis morti durante il parto e sepolti a Prato fuori del cimitero perché non erano battezzati. Adamo invece era stato battezzato e sepolto nel cimitero sempre di Prato, Anna nel 1919 morta a Tripoli e poi traslata a Oseacco, Angelina nel 1923 nata a Smedrevo in serbia poi Onorato vissuto due anni e infine io. Quando sono nato io a Smedrevo mio padre aveva ordinato un barile di birra e a mia madre le aveva regalato uno scialle in seta pura costava come se adesso si comperasse una pelliccia di visone. Mia madre mi aveva detto poi che era stato l’unico regalo che mio padre le aveva fatto. Mia madre aveva 41 anni quando sono nato io e quella volta avere figli a quell’età era davvero rischioso.

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